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IL PONTE DELLE SPIE
(BRIDGE OF SPIES)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 21 dicembre 2015
 
di Steven Spielberg, con Tom Hanks, Mark Rylance, Amy Ryan, Sebastian Koch, Alan Alda (Stati Uniti, 2015)
 
Solo dieci minuti, quelli del prologo di questo presunto thriller di spionaggio, bastano per ricordarci quanto Steven Spielberg sia non solo uno dei più celebri, ma anche fra i più grandi cineasti americani del dopoguerra.

Thriller presunto, poiché la vicenda è autentica, nota, e di conseguenza prevedibile: in piena paranoia della Guerra Fredda degli Anni Cinquanta, lo scambio fra la spia russa Rudolf Abel arrestata a New York dall'FBI, e l'americano Francis Powell, pilota dell'U2 di ricognizione abbattuto sopra il territorio sovietico. Soprattutto, il ruolo avuto nella scottante faccenda dalla figura di James B. Donovan, l'avvocato assicurativo incaricato dell'ingrato compito di difendere un impopolare candidato alla pena di morte e organizzare il pragmatico baratto. E' la grigia normalità del professionista, dell'americano medio che muta in eroe, lucido e commovente; la faticosa ragione umanistica che viene a confrontarsi con il cinismo di quella di stato.

Tom Hanks, che lo interpreta, è al solito immenso. Ma è nell'incontro tra la sua arguta e paradossale ironia (co-sceneggiatori sono certi fratelli Coen&) e l'ermetico, ma vieppiù eloquente mutismo dell'ufficiale del KGB interpretato dall'attore di teatro inglese Mark Rylance che si esalta l'interesse del film, e la forza espressiva di Spielberg.

 Ma lei non s'inquieta mai? chiederà l'avvocato.  Perché, servirebbe?  , ribatterà a più riprese il suo assistito. E' la stessa, umanistica duplicità che il regista riesce a infondere nelle proprie immagini, a partire da quelle di un prologo memorabile che non è soltanto impregnato del magistero tutto hitchcockiano che seguirà. Con la cinepresa che, lentamente, si avvicina alle spalle della spia infiltrata: per mostrarci il suo viso, ma riflesso dapprima da uno specchio nel quale egli si sta osservando. Per mostrarci, infine, il medesimo profilo: ma nell'autoritratto che il protagonista sta dipingendo. Tre dimensioni, tre interpretazioni della stessa realtà che coesistono: come nelle interrogazioni etiche e civili che seguiranno nel film.

Quando IL PONTE DELLE SPIE verrà poi al dunque, trasferendosi nella Berlino del Checkpoint Charlie e del ponte di Glienicke (teatro di alcune sequenze padroneggiate ancora in modo sovrano) il film si farà più esplicito, assumendo maggiormente l'aspetto tradizionale delle pellicole di spionaggio. Ma ad imporsi definitivamente sulle regole del genere, sugli intrighi e le ipocrisie che continuano a costituire la tela di fondo di tanta realpolitik internazionale e che il regista dipinge con splendida disinvoltura, ad elevare la riflessione contribuisce sempre la qualità, mai di maniera, dello sguardo.

Confermandosi maestro nella facoltà di fondere il cinema alla Storia, dopo la sorprendente capacità di abbandonare certe tradizionali meccaniche spielberghiane nel precedente lincoln, lo Spielberg della maturità riesce a interiorizzare ulteriormente l'intimità dei propri temi. Dalla banale gravità iniziale, i due protagonisti scivolano armoniosamente negli impacci benevolenti e quasi comici dell'uno, come nell'umanità sempre più trasparente dell'altro. Da affresco etico e politico che era, da perorazione encomiabile sulla presunzione d'innocenza, IL PONTE DELLE SPIE volge ulteriormente le proprie esigenze morali. Verso il rispetto reciproco, in una commovente dichiarazione d'amicizia, e infine di amore: che va tutta a onore di un inventore di Squali e Extraterresti che consideravamo soltanto geniale.


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